L’unione Sarda del 7 giugno 2018
Melis, dai social a Feltrinelli «con piccole tracce di vita»
POESIA. IN LIBRERIA DA OGGI E LA PRIMA A CAGLIARI STASERA A LEGGENDO METROPOLITANO
Facebook non è solo spazio in cui smarrirsi, abbassare lo sguardo e distoglierlo da quello altrui, dissolvere le relazioni e disperdersi nel frastuono di ego urlanti. Sul social network Andrea Melis (Cagliari, 1979), casa a San Sperate, grafico, videomaker, pilota di droni, per tre lustri addetto di un call center, anima creativa incorporata nella tecnologia, già autore di romanzi noir assieme al Collettivo Sabot e Massimo Carlotto, riaccende il fuoco mai spento della poesia, diffondendo la fiamma salvifica attraverso like e condivisioni.
Un progetto nato dal basso che, dopo la raccolta “#Bisogni” autoprodotta in mille copie grazie a un crowdfunding e subito esaurita, oggi riesce a vedere le stelle.
Feltrinelli manda infatti da oggi in libreria “Piccole tracce di vita. Poesie urgenti”, antolo- gia di componimenti concepiti sullo smartphone, «Moleskine di emozioni e di sogni».
Stasera a Cagliari la prima presentazione (ore 22, Teatro Civico di Castello) nella cornice del festival Leggendo metropolitano. Conduce Massimiliano Messina. All’arpa Raoul Moretti.
Il libro è scommessa vinta contro l’immaginario comune. Può dentro un call center crescere un poeta? Può sopravvivere all’effetto alienante della tecnologia?
«Sono figlio del mio tempo, ipertecnologico dunque. In me resiste tuttavia un’anima ottocentesca. Un apparente ossimoro su cui fondo la consapevolezza di essere diventato poeta al call center, osservatorio sull’umanità. Per 15 anni, raro caso di longevità in un mondo professionale di contratti a breve termine, ho parlato con migliaia di italiani. Ho ricevuto telefonate per problemi amministrativi, raccolto gusti televisivi e quindi indagato tanti vizi e apprezzato poche virtù. Ho soprattutto incontrato molte solitudini e imparato a intercettare i bisogni della gente».
Un percorso inatteso, almeno quanto quello che l’ha portata dal noir al verso concepito sulla tastiera del cellulare e partorito sulla bacheca Facebook.
«A un noir si lavora per anni. La scrittura per me è urgenza. Diciamo che il romanzo è roba da maratoneti e io sono un centometrista. Se sento il dettatointeriore, mi fermo per scrivere anche mentre sono alla guida, amo poi comporre poesie in diretta, persino su commissione, scattarepolaroid di emozioni.Tutto sullo smartphone, mezzo che condiziona la forma, ma ha il potere di far rinascere la poesia.Già Calvino nelle “Lezioni americane” riteneva che la rapidità sarebbe stata via d’accesso alla profondità».
Convincimento di cui Giulio Angioni, affidando le sue poesie prima a Facebook e poi alla carta, è stato interprete.
«Al suo insegnamento devo gli strumenti dell’antropologia di cui, insieme a quelli ricevu-ti da Pinuccio Sciola e Massimo Carlotto, mi servo per leggere il mondo. Ho rincontrato Angioni grazie al social e con lui, sorpreso che mi precedesse nella sperimentazione nonostante il divario generazionale, ho intrattenuto via Messenger accese discussioni sulla poesia. Il professore era convinto che quest’arte, temporaneamente sta nelle canzoni (si fece così profeta del Nobel a Bob Dylan), sarebbe tornata popolare».
L’autobiografismo domina la sua poesia. L’io lirico non si vergogna di dirsi fragile e bam- bino e attinge dalla quotidianità oggetti e simboli. La defini- remmo un poeta crepuscolare 2.0?
«Dall’esperienza del noir non sono uscito a mani vuote: l’io è un’esca, strumento per suscitare voyeurismo, deresponsabilizzare chi legge, sfruttare le vie che conducono al cuore per giungere a questioni urgenti, costringendo il lettore a prendere posizione, senza indulgere nella consolazione. Parlo così di femminicidio, razzismo, diseguaglianze e fame di lavoro. Da Wislawa Szymborska deri-vo, invece, il richiamo agli oggetti quotidiani, le piccole tracce di vita, strumento contro l’analfabetismo sentimentale. “Scrivi quello che io vorrei, ma non so esprimere”, mi dicono i lettori».
La sua è poesia di lotta quindi, ma anche d’amore (di tanti versi è dedicataria la sua bambina) e sogni.
«La poesia lirica è la più difficile, si rischia di sconfinare nel lezioso. Ma ho risolto pregiudizio e pudore, in fondo l’amore è l’unico timone di una vita felice».
Manuela Arca